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Diario svedese – scritto n.60: il lavoro in Svezia – due anni dopo

Questo scritto è il numero 60 di 69 dell'antologia Diario Svedese

Osservazioni sul mondo del lavoro in Svezia a poco meno di due anni dall’assunzione.

Sono trascorsi ormai più di ventiquattro mesi da quel lontano quindici Settembre 2010 che mi vide incamminarmi, spinto dalla speranza e verso l’ignoto, lungo una strada di cui non vedevo la fine. Partii, romanticamente, più per il piacere del viaggio che per il raggiungimento della meta. Flebile il ricordo dei sentimenti provati. Ne ho una vaga idea, di certo dovevo essere molto motivato. E arrabbiato. Un po’ deluso, certamente.

Il lavoro in Italia, e i suoi problemi

Al di là dei sentimenti, una delle ragioni è sempre stata strettamente pratica: l’obiettivo di scoprire un mondo del lavoro diverso da quello italiano. Cresceva in me la determinazione ad appurare di persona se la cultura del lavoro fosse così differente da quella della Penisola.
Lavorando per un’azienda di consulenza informatica e svolgendo interventi presso altre PMI ero costantemente a contatto con dipendenti di diversi settori. Capitava di scambiare qualche parola tra un lavoro e l’altro. Ebbene, certi racconti erano avvilenti: realtà di persone disilluse, demotivate da anni di umiliazioni e senza un briciolo di gratificazione. Ascoltavo nella sorpresa le parole di dipendenti stanchi, completamente distaccati dal loro lavoro e consumati da frustrazione e rabbia verso il datore di lavoro; operai e impiegate in attesa del fine settimana, unica liberazione in una vita lavorativa costellata di delusioni e onte quotidiane. L’odio era un sentimento diffuso che poteva spingere, in casi estremi, a commettere furberie e vendette ai danni dell’azienda. Con me erano fiumi in piena: dopo un’iniziale timidezza di fronte ad uno sconosciuto che poteva benissimo essere un infiltrato si lasciavano andare senza esitazione a lunghe confessioni.
Allo stesso tempo ascoltavo i titolari d’azienda, di frequente prevenuti nei confronti del dipendente, visto come un novello Bruto pronto a pugnalare alla prima occasione l’illuminato benefattore (e, lo ammetto, il sospetto era talvolta legittimo). Erano increduli ed offesi che qualcuno potesse rifiutare un’occasione di lavoro, specie alla luce della crisi economica allora incombente. Era inaccettabile e irriconoscente lamentarsi, in quanto di aspiranti dipendenti pronti a lavorare per una frazione dello stipendio ve ne erano letteralmente legioni. Anche i dipendenti onesti, parte di una categoria la cui reputazione è spesso compromessa da individui dediti al parassitismo, si ritrovavano sorvegliati costantemente in nome di un’idea di profitto ottenibile solo spremendo fino all’ultima goccia di energia vitale dal corpo del lavoratore.
Nella mia ingenuità mi domandavo come un’azienda potesse, con tali presupposti, prosperare, quando divorata dalle lotte intestine ed avente tra le proprie fila elementi che ambivano a tutto fuorché al bene comune, che diffidavano gli uni degli altri, in un eterno conflitto a detrimento di entrambe le parti.
Venivo sbrigativamente giudicato idealista, utopista e sognatore, incapace di accettare una realtà inconfutabile e destinata a rimaner tale. Perché “in fondo, in Italia, siamo grandi lavoratori e se non fai dieci ore sei per forza un lavativo”. Insomma, venivo sistematicamente identificato come un dannato sindacalista figlio dei centri sociali, fedele alla linea e pronto a sovvertire il sistema. Il nemico del capitale! Si sa, da noi basta un soffio e si è già etichettati!
In parte provocato dalle persone più vicine che mi disilludevano a suon di “tutto il mondo è paese” e di “è così e basta, non ci puoi far nulla”, decisi di fare un viaggio alla ricerca di risposte, alla scoperta di come fosse il mondo là fuori.
Venni così in Svezia e scoprii che, forse, si poteva fare diversamente.

Siamo all’inizio dell’anno del Signore 2013. Mi sono concesso due anni per smorzare i facili entusiasmi e sedare la sindrome del turista, sempre pronta a tingere di rosa gli aspetti più evidenti del quotidiano. Posso infine con la necessaria lucidità di pensiero dare un giudizio sufficientemente equilibrato, forte dell’esperienza maturata. Una premessa: lavoro da due anni nella stessa azienda, composta in prevalenza da svedesi ma con forte presenza di impiegati stranieri. Si tratta per me della prima e unica esperienza di lavoro all’estero.

Il lavoro in Svezia – i pro

Cominciamo con il rapporto dipendente-datore di lavoro: ho notato un particolare rispetto per l’impiegato, il cui rapporto con i superiori è più orizzontale rispetto alla realtà italiana. Il “voi”/”lei” in Svezia non esiste, anche per ragioni culturali. Gli uffici dei superiori sono separati dall’open-space in cui lavoriamo noi tecnici, le porte sono tuttavia sempre aperte. Non vi è pertanto una separazione gerarchica dettata dagli spazi.
La dedizione al lavoro e la richiesta del massimo impegno sono anche in Svezia il cardine del successo di un’azienda, nonostante ciò sono considerate di importanza pari alla soddisfazione del dipendente. La pressione è infatti decisamente minore rispetto a quella riscontrabile nel nord-Italia e non vi è un’ossessione alla massima resa in barba alle più elementari leggi di natura: si lavora in condizione di gestire il tempo compatibilmente con i propri ritmi. Un dipendente felice di lavorare è un dipendente che rende di più di un dipendente sfruttato e demotivato (che sorprendente rivelazione!).
Ricordo l’estrema preoccupazione, non appena assunto, di essere in ufficio in orario e di lavorare per otto ore minimizzando le pause. Ora, pur non battendo la fiacca, arrivo in ufficio alle nove, a volte un poco più tardi, pranzo all’ora che preferisco e per quanto mi pare e lascio l’ufficio in media alle cinque. In caso di ritardo bastano un sms o un’e-mail. L’importante è presenziare allo “stand-up” quotidiano, ovvero l’incontro di squadra per l’assegnazione dei compiti. Viene definito “flex-time“: fino a qualche mese fa nuotavo una volta a settimana e uscivo tranquillamente dall’ufficio alle 16.00. È sufficiente recuperare nelle altre giornate l’ora spesa, pur non essendo controllati (non si timbra infatti alcun cartellino).
Nonostante la mancanza di un vero e proprio controllo – il conteggio ore è eseguito dal dipendente tramite un servizio web in cui vengono autocertificate le ore di lavoro – è ovviamente doveroso portare rispetto al datore di lavoro e all’azienda. La mia opinione è che la correttezza si possa dimostrare in diversi modi: con un giusto impegno, con una predisposizione al miglioramento personale e con la giusta dedizione al lavoro. A poco serve essere in ufficio otto ore precise se si cazzeggia, e questo a molti datori di lavoro italiani pare sfuggire. La flessibilità di orari è incoraggiata e praticata da tutti i dipendenti e superiori, talvolta raggiungendo livelli imbarazzanti: sovente capita che qualche dipendente manchi per un mese intero, aspetto che spinge a domandarsi se sia stato licenziato o sia… deceduto! Sappiate infatti che, in media, il dipendente svedese ha diritto a trenta giorni di ferie pagate. Prendersele tutte insieme non è affatto atipico, specie d’estate.
Passiamo al capitolo rimproveri: è capitato commettessi, nella mia fragile umana natura, errori. Nulla di irreparabile o disastroso, ciononostante non sono mai stato ripreso con ramanzine o, peggio, rabbia e sdegno. Particolarmente importante è la spontaneità con la quale mi sentissi spinto a far meglio, non per una questione di obbligo o perché sotto minaccia.
È capitato che anche i colleghi sbagliassero. Non sono mai stati ripresi pubblicamente o peggio umiliati di fronte ai compagni. Questo aspetto è in particolare sacrosanto nel mondo del lavoro svedese, il che rende l’ufficio medio scandinavo assai più accogliente della controparte italiana. Si tratta in sintesi di un ambiente lavorativo molto più maturo, progressista e stimolante anche in confronto ad altre realtà mondiali.

Si tratta in sintesi di un ambiente lavorativo molto più maturo, progressista e stimolante anche in confronto ad altre realtà mondiali


Riguardo agli stimoli personali: ho ricevuto incarichi che mi hanno messo alla prova e l’entusiasmo nel portarli a termine era tale che non ho mai faticato ad affrontarli con dedizione, sia per soddisfazione personale che per divertimento. Credo che il segreto stia tutto lì: far sì che il dipendente affronti il lavoro con la giusta carica e la giusta spinta, senza trattarlo come un asino, percosso dal bastone e tentato dalla carota. Il resto verrà da sé, senza bisogno di regole ferree, umiliazioni, tagli di stipendio e minacce da schiavisti (altra incredibile rivelazione! Quanti segreti in questo articolo, accidenti…).
Tra gli incentivi standard ricordo la presenza di frutta fresca due volte a settimana, lattine di bibite e acqua gassata gratis (che non bevo, ma tant’è), caffè, te, cioccolata e arance da spremere. Ogni ricorrenza viene celebrata con dolci tipici in compagnia, in cucina. É stato il caso del Natale, con dolciumi di ogni genere, e della Santa Lucia con i celebri Lussekatter. Tra colleghi si celebrano spesso i risultati conseguiti con gelato o biscotti (in questo caso pagati dai dipendenti 🙂 ). Il bello sta nel clima che si respira, nella completa naturalezza. Ho comprato dei cantuccini per festeggiare il Natale ed è stato motivo di aggregazione: un collega si è prodigato di portare del glögg, assimilabile al vin brulé, da abbinare ai biscotti e abbiamo festeggiato tutti insieme, superiori inclusi.
La convivialità continua il venerdì mattina: ci si trova sempre in cucina per il riassunto dei conseguimenti settimanali. L’azienda acquista panini per tutti e il pomeriggio viene offerta birra che si consuma dalle 15.00 in poi, in cucina, sempre con i superiori. Sorprendentemente non ho mai sentito un solo capo gridare frasi del tipo “non vi pago per bere birra”.
Spesso, vedendomi ancora intento a lavorare, i colleghi insistono affinché smetta e mi unisca a loro. È quello che loro chiamano “beer o’ clock“, e non ci si scappa. Dopo due anni faccio ancora fatica a lasciarmi andare, abituato alla rigidità italiana. Ed è così che, non amando particolarmente la birra, finisco per lasciare la scrivania e far loro compagnia con del te al mirtillo, che fa bene alla vista 🙂
Ho già citato in passato il rimborso fino a due terzi dell’abbonamento alla palestra, giusto a ricordare l’attenzione alla salute del dipendente.

Il lavoro in Svezia – i contro

Sembrerebbe il paradiso, no? Per certi aspetti di paradiso si tratta. È tuttavia doveroso mettere in luce alcuni lati oscuri. Una premessa: vengo dalla provincia di Brescia, nota per la concezione a tratti “religiosa” del lavoro. Tenete in considerazione questo aspetto per valutare l’origine delle mie riflessioni 🙂
In prima istanza il concetto di “squadra”: pur essendo in ottimi rapporti con tutti i miei colleghi, il concetto di team si limita ad un raggruppamento di individui con abilità affini. Si tende spesso ad essere tiratori liberi e a lavorare per i fatti propri, gestendosi le tempistiche e i progetti non informando i compagni. Il mio stile di lavoro prevede la frequente redazione di documentazione dopo aver testato e implementato nuovi aspetti dell’infrastruttura. Questo al fine di facilitare la condivisione delle informazioni. Non trovo nulla di fantascientifico in ciò, tuttavia è un aspetto per cui sono stato spesso, sorprendentemente, elogiato e addirittura preso a modello. Pare che questo modo di lavorare basato sulla condivisione non sia molto diffuso, per quanto lo si possa dar per scontato in qualsiasi azienda. È capitato in passato che dedicassi ore o giorni alla risoluzione di certi problemi e alla successiva documentazione delle soluzioni così da evitare al resto della squadra un inutile spreco di tempo ed energie. Immaginate il disappunto nell’accorgermi che uno dei colleghi spendesse tempo prezioso alla ricerca di una soluzione ai problemi già risolti. Sovente è capitato il contrario: problemi già affrontati da altri e soluzioni non rese note al resto della squadra. Insomma, un trionfo di inefficienza!

il concetto di team si limita ad un raggruppamento di individui con abilità affini. Si tende spesso ad essere tiratori liberi e a lavorare per i fatti propri, gestendosi le tempistiche e i progetti non informando i compagni.

Un altro aspetto spesso fonte di frustrazione è l’assenza di prese di posizione decise. Come dicevo poco sopra il rispetto reciproco è sacrosanto, il che si traduce talvolta in mancanza di polso e poca incisività. Tolto il caso del mio più diretto superiore, ex ufficiale della marina australiano, pare che i manager svedesi applichino pedissequamente la “Jantelagen“. Vi invito a fare una piccola ricerca in rete sul significato del vocabolo che riassume efficacemente la natura del popolo svedese. Il blog Stilenordico la descrive con dovizia di particolari.
Gli effetti nell’ambiente lavorativo sono, in sintesi, i seguenti: il miglioramento personale è benvenuto, tuttavia non deve essere troppo “aggressivo” e ostentato in modo da non mettere in cattiva luce gli altri dipendenti o costringerli a dare di più controvoglia. Tutto deve risultare spontaneo e richiede i propri tempi, a volte biblici. È bene mantenere un basso profilo senza troppo proclamarsi portatori di soluzioni straordinarie, evitando il più possibile di pubblicizzare i risultati conseguiti. Al contempo capita che le proprie “abilità peculiari” non vengano assolutamente prese in considerazione: essendo considerati tutti uguali capiterà che, pur conoscendo meglio degli altri una determinata tecnologia, nessuno chiederà il vostro parere. È una società che mal tollera l’arrivismo e le scalate. C’è chi la ritiene equa, chi piatta e mortificante. Così è e bisogna farsene una ragione.

I consigli

Una riflessione con relativo consiglio: venendo, come già accennato, da una regione d’Italia dove il lavoro è roba da fondamentalisti, ho l’abitudine ad impegnarmi il più possibile per l’azienda, spesso facendo del lavoro una “missione”, affrontando i problemi quasi fossero l’unica ragione di vita.  Un consiglio spassionato nel caso puntiate alla Svezia: non applicate questo metodo. Buona parte degli svedesi vede il lavoro per ciò che è, un male necessario. Lavorano senza spaccarsi la schiena, condivisibile o meno. L’unico modo per non consumarsi nella frustrazione vedendo i colleghi che si disinteressano dei problemi e che lasciano l’ufficio alle 17.00 anche se i server sono in fiamme, è di adeguarsi al loro stile. Non mettete loro pressione o faranno ancora meno! Soprattutto, non dite sempre sì, altrimenti finirete per fare il lavoro di tutti gli altri…
Ho raccolto testimonianze di conoscenti che confermano queste impressioni. La mia azienda sembra sia su buoni livelli di impegno e dedizione da parte dei dipendenti ma tante altre realtà svedesi non sembrano avere questa fortuna: dipendenti che danno il minimo indispensabile in quanto non licenziabili (i sindacati sono molto forti), difficoltà dei dipendenti più motivati e ad alto rendimento ad essere accettati – specie se stranieri – e via discorrendo. Nonostante tutto molte aziende godono di buona salute e fanno profitti, il che dà luogo a numerosi interrogativi sull’origine di tale successo a fronte di un’apparente inefficienza. Eppure, siamo forse noi nella ragione, a dare al lavoro tutta questa importanza? Non ci siamo forse dimenticati che vi sono aspetti più importanti della vita che vanno oltre le ore spese in un ufficio o in una fabbrica perché “è il sistema che ce lo chiede” ed è il nostro ruolo prestabilito?

Le conclusioni

Al di là di questi rilevanti difetti il mio giudizio è tendenzialmente positivo: il lavoro è ben retribuito; con ritmi assolutamente tranquilli; vi è un approccio serio ai problemi e non raffazzonato e si punta al miglior risultato dal punto di vista qualitativo, anche nel lungo termine. Se un problema non è risolvibile dal team interno si chiama un consulente specializzato senza troppo badare a spese. Il software e l’hardware si comprano dopo le dovute valutazioni, senza sprechi ma al contempo senza necessariamente puntare al minimo prezzo possibile anche andando fuori mercato. Se un server o una licenza servono, si comprano, costino quel che costino! Il professionista dell’IT è rispettato e l’intero settore ha un ruolo chiave nell’industria svedese. Insomma, nel bilancio aziendale non si punta a limare il più possibile la voce “IT”!
In ultimo, l’aspetto che considero di importanza primaria nella mia scala personale: l’attenzione al dipendente è di primo livello grazie ad una presenza dei sindacati forte ma praticamente mai necessaria, grazie al rapporto amichevole con gli altri dipendenti e con i superiori.
Sarebbe fantastico portare qualche idea nel nostro Paese, dubito tuttavia verrebbe accolta a braccia aperte. Temo soprattutto in un abuso di diritti da parte dei dipendenti che porterebbe ad un immediato fallimento del progetto. La tentazione a fare cattivo uso di questi benefit sarebbe molto forte.

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Nicola “spidernik84”, si è trasferito nel Settembre 2010 a Stoccolma, in Svezia. In questo blog troverete il resoconto della sua avventura in terra scandinava, un lungo viaggio alla ricerca di un impiego e di nuove opportunità, ricco di avventure inconsuete e testimonianza delle sorprese che un trasferimento all’estero presenta. Ad inizio 2019 lascia temporaneamente la Svezia per un periodo sabbatico nel circuito WWOOF.